Identikit del “Romano de Roma”: chi è, com’è fatto e come si riconosce un vero figlio della città “Caput Mundi” attraverso, detti, proverbi e… insulti tipici

Nei miei articoli ho spesso raccontato delle bellezze della Città Eterna. D’altro canto se così è stata chiamata qualche motivo ci sarà, non foss’altro che esiste da oltre duemila anni e in questo lungo periodo di cose se ne sono viste nei suoi quartieri. Non ho, però, mai illustrato come sia fatto un romano, il suo essere tale ed il suo modo di vedere la vita.

Non mi riferisco ai cittadini che si sono trasferiti da relativamente poco tempo nella Capitale: l’oggetto di questa breve trattazione è il “romano de Roma”, quello che è tale da almeno sette generazioni o giù di lì e che in più ha salito “i tre scalini”. Quali sono questi “scalini” non è proprio una cosa di cui vantarsi. Si tratta di quella breve scalinata (e non altra) che porta all’interno di Regina Coeli, il carcere circondariale di Roma. Salita la breve rampa si gode, per qualche tempo, del soggiorno gratuito offerto dallo stato italiano per coloro che hanno commesso qualche “peccatuccio”.

Per dirla in termini scientifici: condizione necessaria e sufficiente per cui un romano possa definirsi tale è esserlo da sette generazioni ed aver salito i tre scalini.

LA COMPONENTISTICA DI UN ROMANO

Quali sono, dunque le “componenti” che assemblate insieme dalla natura e dall’ambiente contribuiscono alla realizzazione di un romano? Per rendere l’idea, mi avvarrò di alcuni modi di dire e proverbi strettamente capitolini ma prima bisogna comprendere quelle che sono le caratteristiche fondamentali. Tre sono i personaggi dello spettacolo le cui peculiarità unite insieme concorrono alla formazione del perfetto discendente di Romolo: i compianti Gigi Proietti, Alberto Sordi e Maurizio Costanzo. Messi insieme sono lo scheletro sul quale si incarna il cittadino “tipo”: istrione, drammatico e ironico.

A questi ingredienti si aggiunge un sornione cinismo e una certa altezzosità. Sono peccati “veniali, da tollerare, perché, in fondo, sulle spalle del quirita “doc” grava il peso della storia di tutti quei secoli in cui l’Urbe teneva il comando dell’orbe terraqueo (Roma caput mundi tenet orbis frena rotundi). Tito Livio precorre la frase in “Ab Urbe condita, I, 16” cita: “Abi, nuntia […] Romanis, caelestes ita velle ut mea Roma caput orbis terrarum sit” (“Va’ e annuncia ai Romani che la volontà degli dèi celesti è che la mia Roma diventi la capitale del mondo“).

Sono versi che risalgono ad un periodo compreso tra il 27 a.C. e il 14 d.C. . Consentitemi una ultima considerazione: pare a voi che un popolo al quale bastava affermare, nell’allora mondo conosciuto, “cives romanus sum” (sono cittadino romano) per ottenere il massimo riguardo, non risenta ancora oggi di qualche sintomo di altezzosità seppure inconscio? Ce l’hanno gli inglesi con la loro flemmatica albagìa i quali portavano le corna in testa quando Roma stendeva la sua pax su tutta l’Europa, mi pare legittimo che possono avercela anche i romani (scherzo ma mica tanto). Questa trattazione sull’essenza del romano spero non la troviate troppo “pesante” perchè “sinnò ho sbajato tutto: ve volevo fà divertì“.

IL COMPORTAMENTO DEL ROMANO D’OGGI PER FRASI

Una caratteristica tutta romana è rispondere con alcune frasi fatte, solitamente ironiche se non comiche ma sempre salaci. L’intercalare popolare è ricco di proverbi e aforismi. Posso affermare che, nella Capitale, ci si esprime per parabole, anzi per iperbole. Qualche esempio? Attenzione riporto solo quelli meno rozzi per motivi di decenza perché i più diffusi sono veramente “grevi”. Piccola premessa: nel frasario comune, spesso le parole presentano al loro inizio alcune tipiche interiezioni:

LE INTERIEZIONI TIPICHE

Ahò (cito dal vocabolario Treccani) “aho ahó ‹aó› interiez. – Modo popolare (diffuso soprattutto nell’uso romanesco) di apostrofare qualcuno con stizza o risentimento: ahó, ma che vuoi?” 
Mo’
(adesso, subito): è una contrazione della parola latina “mox” (subito): “Mo’ che voi?” ( che desideri adesso?); “sò arrivato mo’ mo’” (sono arrivato or ora).

Spesse volte si anticipa una spiegazione con la parola “robba” che diventa una interiezione jolly da usare con tanti diversi significati: “famo robba?“(vogliamo fare l’amore?);”‘anvedi sì che robba” (guarda tu cosa si deve vedere); “robba che si nun te ne vai…” (ci sono cose che potrebbero accaderti se non ti allontani).

Il romano ci tiene a spiegare l’uso della sua lingua e così questo è l’esempio fornito da un dotto trasteverino sull’uso della doppia consonante: “ ‘buro’, ‘caro’ e ‘fero’ se scriveno co’ due ‘ere’ sinnò è erore” (“burro, carro e ferro si scrivono con due “erre” altrimenti è errore”).

ALTRE PARTICOLARITÀ DEL ROMANO E DELLA SUA LINGUA

Il romano è innamorato della sua città:
 “L’unica cosa bella de Milano è er treno pe’ Roma”
Se qualcuno vi infastidisce questa è l’espressione che fa per voi:
 “Ahò si nun te ne vai te scarto ‘a capoccia come ‘n’a Golia”. (Si allude alla nota caramella a forma di farfalla per scartare la quale bisogna tirare le due ali in direzioni opposte).

Se poi si vuol passare ai fatti: “t’appoggio ‘na mano ‘n faccia”: ti prendo a ceffoni sul volto.
Vedete due persone assieme di cui una più alta dell’altra? Ecco scappare fuori l’iperbole: “Aho’ tu a quello je magni ‘n testa!”.

La sprezzante, comica ironia si svela anche nell’offendere le persone, ad esempio sull’avvenenza:
robba che da piccolo eri cosi’ brutto che tu’ madre anziche’ spigne ‘a carozzina la tirava pe’ nun vedette” (dalla tua tenera età fino ad oggi sei stato tutt’altro che bello)
Oppure:
c’hai er naso cosi’ lungo che nun te se chiude la carta d’identita’” (hai un naso spropositatamente grande)

Altro insulto sull’importanza di una persona:
vali come er due de coppe quanno regna bastoni” (riferimento al gioco della briscola: persona che si crede importante ed in realtà non lo è).

IL ROMANO AL RISVEGLIO

Gli abitanti della Capitale sono considerati pigri e indolenti. È solo un pregiudizio, in realtà sono presaghi di quello che la giornata porterà e si preoccupano….

A proposito del famoso detto del leone e la gazzella:
A me già solo a sentì che il leone e ‘a gazzella ‘a mattina corrono me viè l’ansia”.

Si diceva dell’indolenza?
“‘A vita comincia dopo er caffè.”
E poi boh, te arzi ma nun te sveij.”
“‘A mattina nun è bello ciò che è bello, è bello ciò che tace!”

AFORISMI ROMANI SUL CIBO

Il cibo è una cosa sacra, a tavola ci si rilassa, si passa il tempo, si è tutti amici. Rappresenta il concetto perfetto di convivialità sempre presente nell’animo del romano che lo usa a proposito e a sproposito.
Gli occhi sò ‘o specchio dell’anima, ‘a panza è ‘o specchio de quello c’ ho magnato ieri.”
Nun famme l’occhi dorci, sto a dieta!
In palestra me riconosci subito, sò quello seduto ar tavolino der bar!”
L’unico modo pe’ dimagrì cor té verde è salì su ‘e montagne cinesi e raccojelo.”
“‘A mia dieta è salutare. Allora te saluto, ciao.”

AFORISMI ROMANI SULLE DONNE

Nemmeno la donna si salva dal cinismo capitolino ma, sotto all’acido sarcasmo, spunta sempre un lembo di verità.
’A donna nun dimentica. Controlla si t’o ricordi.” (la donna non dimentica: controlla se te lo ricordi)
“‘E donne ‘n grado de cambià l’ommini esistono. Se chiameno badanti.”
“‘E donne sò fatte p’er 75% de scarpe”.
Le donne cianno er pianto ‘n saccoccia” (Le donne hanno le lacrime facili)

AFORISMI ROMANI SULLA VITA

Cosa ne pensa un “romano de Roma” sulla vita? Sicuramente il suo approccio all’esistenza è disincantato quando non è propriamente cinico eppure colpisce per il coraggio con cui affronta il problema dell’esistenza.

“N’a vita bisogna esse ‘mpò egoisti: si nun ce pensi te a te stesso, nun ce pensa nisuno.”
“ I treni che cambiano ‘a vita esistono. Ma nun s’aspettano: se guidano.”
“‘A vita nun è aspettà che passi ‘a tempesta ma imparà a ballà sotto ‘a pioggia.”“
Ma soprattutto ed ecco qui il cinismo:
“Quanno te sembra che ‘a vita te sta annà bene, c’hai ragione: sembra.”

LE ORIGINI DI ALCUNI MODI DI DIRE

A terminare questo excursus sul romano e sul suo dialetto ho piacere citare alcuni modi di dire assieme alla spiegazione dell’origine.

VECCHIO COME ER CUCCO

Secondo alcuni studiosi ( a cercarli si trovano sempre)  il termine “cucco” deriva da “cuco”, un fischietto tra i primi giocattoli dell’antichità. Stando alla Treccani, invece, il termine sarebbe una deformazione onomatopeica di Abacuc, uno dei 12 profeti d’Israele che viene sempre rappresentato come un uomo anziano, pensieroso e dalla lunga barba. Vista l’assidua coabitazione tra ebrei e romani nell’Urbe ai quali molto deve la storia delle sue tradizioni, propendo per la versione dell’Enciclopedia Italiana.

CERCÀ MARIA PE’ ROMA

L’espressione indica sia  chi cerca “il pelo nell’uovo” oppure l’intenzione di cercare guai. Ad esempio, rivolgendosi a qualcuno  che continua a stuzzicare una persona la quale dà segni di intolleranza:
“Ahò ma che stai a cercà Maria pe’ Roma pe’ litigà?
Contrariamente a quanto si pensi, l’espressione è legata alla religione cattolica, in particolare alla Madonna.

Poco distante da Campo de’ Fiori, nella Capitale, si trova un’angusta viuzza che è lì da oltre 2000 anni: il Passetto del Biscione. In questo, luogo durante il medioevo, furono realizzate le chiese di Santa Barbara dei Librai e San Salvatore in Arco. In quest’ultima chiesa, oggi Santa Maria in Grottapinta, luogo di culto abbandonato e sconsacrato, si trovava (e si trova) un’icona della Madonna della Divina Provvidenza. Ebbene l’espressione “Cercà Maria pe’ Roma” si riferirebbe proprio alla difficoltà di trovare, in città, quell’icona di Maria. 

AR TEMPO DE “CHECCHENNINA

Usatissimo dai romani fa coppia con il termine “Anticaja e Petrella”, entrambe espressioni che indicano qualcosa passato di moda e da buttare. Per traslato il concetto si applica non solo alle cose ma anche ad una situazione, un’usanza o un punto di vista.

Vale come esempio una vecchia automobile male in arnese: “Sta machina è de li tempi de Checchennina” oppure, in caso di eventi:  “Succedeva solo ai tempi de Checchennina”

Chi erano Checco e Nina? La parola “Checchennina” è l’unione di due nomi: Checco e Nina, diminutivi di  Francesco e Giovanna.

Secondo la tradizione, erano due innamorati. Lui vissuto nella zona della Lungara, lei di San Cosimato. Infedele e donnaiolo, il giovanotto si era fidanzato con la bella Nina che lo amava alla follia. Stanca dei continui tradimenti, un giorno decise di lasciarlo. Una storia antica diventata un modo di dire.

AVECCE PRESCIA (O “ANNÀ DE PRESCIA”)

Tipicamente romana è una delle espressioni gergali più diffuse: “ma che vai de prescia?” (“hai premura?”). Il termine “prescia” è legato alla fretta, ma perchè? La spiegazione più accreditata risale al tempo del carnevale romano.

Durante i festeggiamenti, infatti, aveva luogo una corsa di cavalli senza fantino detta “corsa dei berberi”. Per far correre le povere bestie veniva spalmata sotto la coda, una pece urticante detta, appunto, “prescia”. Da qui il detto romanesco.

Spesso i modi di dire prendono origine da accadimenti importanti o da gesti di persone famose. Eccone uno che originò da nobili lombi e precisamente da uno dei più grandi sindaci di Roma: Ernesto Nathan:

NUN C’È TRIPPA PE’ GATTI
Ernesto Nathan

Quando non ce n’è per nessuno si usa l’espressione citata. Erano gli inizi del ‘900 (precisamente tra il 1907 e il 1913), il sindaco di Roma era Ernesto Nathan, famoso per i tagli al bilancio pubblico della Città Eterna (oggi come allora sempre in affanno per quanto concerne le casse pubbliche).

Recitano le memorie capitoline che durante il controllo del piano finanziario della città, Nathan avesse notato una spesa posta a capitolo indicata come: “frattaglie per gatti”, insomma la trippa. Alla sua domanda sul perché di quella spesa gli fu risposto che servivano quale cibo per sfamare i gatti adibiti alla caccia dei topi che rosicchiavano i documenti degli archivi capitolini. Il Sindaco, udita la risposta, dopo aver fatto presente che il nutrimento dei gatti erano proprio i topi, cassò di sua mano la voce di spesa dicendo: “Nun c’è trippa pe’ gatti” frase, poi, italianizzata, è divenuta celebre in tutta la Penisola.

STA’ A GUARDÀ ER CAPELLO

È un termine riservato a coloro che sono puntigliosi, a chi si impunta su un dettaglio trascurabile. Il modo di dire nasce nelle osterie, tra il 1500 e il 1600. I romani, soprattutto in quegli anni, hanno sempre avuto una certa dimistichezza con il vino che, dai Castelli Romani, scorreva fino all’Urbe. Le osterie la facevano da padrone e la gente era solita riunirsi là. D’altrocanto televisori e cinema esistevano… .

L’oste serviva la bevanda in recipienti di terracotta o di metallo e siccome non erano trasparenti, gli avventori non potevano controllare quanto vino contenessero. Da qui, spesso, accuse all’oste, risse e qualche volta un accoltellamento.

Nel 1588, Papa Sisto V, il quale più che un papa era uno sceriffo, allo scopo di porre fine alle zuffe, sostituì i recipienti con delle caraffe di vetro trasparenti, in modo che mostrassero il livello del contenuto. Ma il capello cosa c’entra?  Ebbene il livello del vino era indicato da una sottile riga incisa nel vetro. In gergo questa linea era chiamata “er capello”. Ecco svelata l’origine del modo di dire “Stai a guardà er capello” e la sua correlazione con il vino.

L’ESSERE ROMANI, CONCLUDENDO

Naturalmente ho raccontato una parte dei modi di dire romani. La finalità non è tanto quella di spiegare il significato di alcune frasi tipicamente capitoline ma rendere l’idea di quello che è il romano e l’aria che si respira nella capitale. Per quanto se ne voglia dire noi romani non siamo poi così cattivi.

Abbiamo dei risvolti non proprio simpatici, è vero, ma quello che travolge il visitatore è “er còre de Roma”. Roma non v’abbandona mai e il romano sarà sempre pronto a correre in vostro soccorso. Dal ‘600 fino ai primi anni del nostro secolo, ce lo diciamo? Siamo stati dei “morti di fame” seppure nobili nell’animo. Questo ricordo ha impregnato il nostro DNA per cui il concetto di “mutuo soccorso” è innato in noi. Alla fine di questo articolo un po’ prolisso (ma era doveroso) conoscete un pochino di più il popolo dell’Urbe, non fatevi trarre in inganno dagli altri, i parvenù, perchè di quelli ce ne sono molti nella Capitale. I figli di Romolo sono tolleranti ma qualche volta… . Se vedemìo (arrivederci).