Il Taccuino della storia – Ancora quasi cronaca…

Eccellenza! Eccellenza!” – il capo-gabinetto corre urlando per il corridoio agitando dei fogli tra le mani.
Irrompe nell’ampio studio del Ministro degli Interni e grida ancora: “Eccellenza…Eccellenza! A cento chilometri da qui…Un terremoto terribile…La Marsica è distrutta!
Sua Eccellenza il Ministro degli Interni stava sorbendo un mattutino e profumato caffé. Posa la tazzina stralunando gli occhi: “Si calmi!” – asserisce – “Mi dica dove è questo posto…
Forse fu per questo che i soccorsi tardarono a partire, oppure fu forse perché allora le cose andavano così… L’Italia post-giolittiana stava preparandosi ad andare in guerra nemmanco fosse una grande potenza e, purtroppo, quella tragedia segnava il limite della vera italietta, quella che si replicherà negli anni, nei decenni a venire, anche un secolo dopo con i terremoti degli anni ’80 e ’90 e ancora dopo fino a quello terribile del 2009…

I telegrammi giunti dai luoghi del disastro parlavano chiaro: quello di Tagliacozzo e anche quello dalla stazione di Avezzano…
Giunse anche un messaggio da Sante Marie.
Avvisarono il Presidente Salandra, portarono un messaggio a Sua Maestà, ma solo a tarda sera, il Regio Commissario Secondo Dezza, frettolosamente nominato, poté incontrarsi con il generale comandante del Genio Militare e poté veder partire la prima autocolonna ché la ferrovia era impedita…

Laggiù, intanto, mentre si avvertivano altri tremori, spauriti superstiti si aggiravano fra i mucchi di rovine.
Il giorno era di un freddo particolarmente inclemente.
Qualcuno accese un fuoco da qualche parte mentre il giorno declinava.
Qualcuno si diede da fare presso le macerie di qualche casa dalla quale giungevano grida sempre più sommesse…

Una diecina di soldati del distaccamento reggimentale, usciti indenni dal crollo della caserma locale, si diedero daffare d’attorno, qualcuno lo tirarono fuori a forza di sotto i tetti ed i solai crollati…
Una suora scampata al convitto, andò a cercare qualcosa che si potesse mangiare.
Qualcuno riuscì a far bollire un po’ d’acqua.
Qua e là, si intravedevano i bagliori di qualche misero focaraccio acceso per provare a scaldare i corpi affranti.
La notte scese cupa su un deserto di rovine come mai s’era visto…
I pochi sopravvissuti si stringevano fra loro con negli occhi l’orrore del dramma tragico che stavano vivendo…
Il silenzio gravava sulla polvere immota, cristallizzata dal freddo…
In un angolo di quella che era stata la Piazza un gruppo sparuto riparato alla bell’e meglio mormorava smozzicate preghiere a quel Dio che sembrava averli dimenticati: era stato questo il grido d’un uomo impazzito di dolore!

Scese la notte sul mondo dilaniato, sulla terra devastata, sulla Città annichilita, su un popolo annientato…
Dai Muscio! Orco can! Daje co’ quea pertica!” – un oscuro caporale veneto, mentre tiene alta una torcia, incita i suoi quattro commilitoni a far forza: lì, sotto la trave, c’è forse ancora una donna viva…
Tutt’intorno cala, silenziosa e greve, una tenebra sempre più oscura e tremenda: il giorno che non vide mai l’alba, come qualcuno avrebbe poi scritto, era ormai finito…
…Ma il domani di speranza, non era ancora sorto!

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