“La metafora dell’Orso”: compagno d’infanzia e star dei cartoon. Ecco perché quest’animale, sacro per gli indiani d’America, è da sempre presente nell’immaginario di tutti noi

Tra quelli della mia generazione, è assai difficile trovarne uno che non abbia avuto nella sua infanzia un orso, un pupazzo di peluche o di gomma, come compagno di giochi.

Io, lo confesso, ho avuto (ed ho ancora) l’orso di gomma che vedete nella foto – che fa bella mostra di sé in una delle mie librerie, è “Totto”, ovvero è l’orsacchiotto che sta lì da un bel pezzo della mia vita e sorveglia i miei libri, ovvero una parte di essi.

Il mio orsacchiotto

Mio fratello ne aveva anche lui uno, era di peluche e stava su una motocicletta a triciclo che andava a frizione ed era bellissimo vederlo pedalare.

Poi non mi si venga a dire che nessuno ha riso delle vicende dell’orso Yoghi, del suo inseparabile compagno Bubu (la amichetta Cindy è meno nota), e della presenza controllistica del ranger Smith, tutti usciti dalla insuperabile maestria di Hanna & Barbera.


E si potrebbe ancora citare Balù, Winnie the Pooh oppure Napo Orso Capo con la sua parlata napoletana o quasi.

Il grande successo di questi personaggi risiede sicuramente nella simpatia che l’Orso in sé suscita: la sua andatura talora un po’ ballonzolante, la sua più o meno presunta e reale bonomia, lo rendono un animale di successo.

In fondo poi, è il caso di dirlo, quelli che son cresciuti con Yoghi sanno da sempre che non si debbono dare i cestini delle merende agli orsi e questo, anche se detto per Yellowstone, vale per ogni dove.

Per chi collezionava le figurine Panini nei lontani anni ’60, era notissimo il Baribal, ovvero un orso pescatore americano.

Ursus americanus o Black bear o Baribal

Altro orso noto dalle figurine era l’Ursus Thibetanus o Asian Black Bear o Orso dal collare (nella foto che segue).

Orso dal collare

Uno dei primi libri che ho letto in vita mia (tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70), preso in prestito in biblioteca, fu “Vita con gli Orsi” di Beth Day (edito all’epoca da Garzanti), una sorta di diario, di storia anche cronachistica se si vuole, ambientata in Alaska.

Ci sono dei detti, forse non troppo famosi, riguardanti l’orso che meritano una citazione: “Quando un ago di pino cade nella foresta, l’aquila lo vede; Il cervo lo sente, e l’orso l’odora” che è un bel detto degli indiani nativi d’America, e poi “…Coloro che hanno avuto la possibilità di stare in un territorio con gli orsi sanno che la loro presenza eleva le montagne, rende i canyons più profondi, acuisce il soffio dei venti, illumina le stelle, oscura le foreste, accelera il battito delle cose” scritto da John Murray.

Ma l’orso è anche metafora, infatti, l’immagine evocativa dell’orso rende bene e in maniera molto più espressiva, il fatto che ad esempio un certo Daniele, qualificato “orso”, sia una persona scontrosa, goffa. La metafora in questo caso è la parola orso che si va a sostituire ad aggettivi quali scontroso, schivo, rude e così via.

Ed è una metafora diffusa anche perché rende bene l’idea!

Ecco perché il vedere l’orso a portata di mano sovverte l’idea stessa che, storicamente e tradizionalmente, si ha del famoso plantigrado.

C’è un’altra metafora dell’orso che coinvolge ancora la vita umana ed è quella di Carlo Lapucci (in Dizionario dei proverbi italiani, Mondadori, 2007) “…Dalla preistoria e fino a qualche tempo fa, l’orso è stato una presenza costante nella vita dell’uomo. Anticamente, infatti, veniva cacciato per le sue carni; in seguito venne impiegato come bestia da spettacolo ed esibito nelle arene, nei circhi e alle fiere. Per convincerlo a darsi a un’arte a lui poco congeniale quale è la danza, lo si addestrava su piastre che agli ordini del domatore venivano scaldate da sotto con il fuoco.

Oggigiorno l’orso trascorre la vita nei parchi nazionali o nei giardini zoologici. Nelle leggende rappresenta la forza bruta e istintiva e finisce per essere domato dai santi che lo ammansiscono al punto di ridurlo a fare il sacrestano. Nelle fiabe svolge di solito la parte del babbeo. È simbolo di vari tipi di persone o cose: dell’anacoreta (in quanto vive solitario); della ghiottoneria (è proverbiale la sua predilezione per il miele che divora incurante delle punture delle api); del giullare (un tempo era infatti usato dai saltimbanchi che lo portavano con sé incatenato, facendolo ballare); della goffaggine (per i suoi movimenti impacciati)“.

Ma forse la metafora più bella è quella di “Mamma Orsa”, ben nota per la sua affezione e protezione verso i suoi cuccioli, una mamma che sia come mamma orsa rivaleggia con mamma chioccia e non si deve neanche spiegare il perché.

E a proposito di “Mamma Orsa” vale bene la riflessione di Mauro Corona, sulla Stampa del 2017, “…Finché l’uomo attraverserà la strada di un’orsa con i cuccioli, finché quell’orsa avrà paura aggredirà per difenderli. Ogni madre, di qualsiasi specie sia, difende i propri piccoli. È l’uomo, non l’orsa, che non è al suo posto…”
Son parole che fan riflettere sul destino della povera Amarena e stupisce che qualcuno non li ami, questi animali così singolari, stupisce perché dal cielo notturno l’Orsa Maggiore e l’Orsa Minore sembrano vegliare sul cammino e su destini dell’uomo…