Terremoto della Marsica. “La Memoria del Sottosuolo”. A centodieci anni dal 13 Gennaio 1915

Vista aerea di Avezzano nei giorni successivi al terremoto
di Gabriele Ciaccia*
AVEZZANO – “Ora ascolta quale sia la ragione dei terremoti. In primo luogo, sappi che la terra, di sotto come sopra, è piena di caverne, e che i venti le percorrono; e dentro il proprio seno racchiude tanti laghi, stagni, rocce, scoscese rupi; e sappi che al disotto della sua superficie molti fiumi trascinano con flutti violenti dei macigni sommersi: che ogni cosa, per sua natura vuole in ogni parte somigliare a se stessa.
Queste cose sotto terra fra loro son connesse; e se il lungo trascorrere del tempo fa sprofondare quelle grotte immense, la terra in superficie anch’essa trema, squassata da gran crolli: all’improvviso cadono giù montagne intere a quella scossa immane, e tremori si diffondono a largo raggio- Trepida per un duplice timore la gente, allora, perché dall’alto teme che cadano i tetti, ed in basso teme per la natura della terra, che non distrugga repentinamente le caverne del sottosuolo, e allora, disgregata, spalanchi un vasto abisso per riempirlo con le sue rovine.
Perciò creda chi vuole che la terra ed il cielo incorrotti e destinati siano a un’eterna vita. Lucrezio, La natura delle cose, libro VI, vv. 535-607

Il terremoto del 13 gennaio 1915 non fu solo un evento tellurico, fu un tremendo trauma sociale, psicologico e culturale.
Il sisma del 1915 è classificato come il secondo terremoto in Italia per il numero dei morti: più di 30.000 su un totale di 120.000 persone residenti nella Marsica; solo ad Avezzano, che contava 15.000 abitanti, furono 9.328.
Ne conseguirono ingenti danni per l’economia e per l’intero assetto sociale. Con la forza dell’undicesimo grado della scala Mercalli, settimo grado della scala Richter, avvertita in tutta l’Italia centrale, alle ore 07:48, l’esplosione del sottosuolo cambiò la storia della Marsica, dell’Italia, dell’Europa, per mesi seguirono 1000 repliche.
Il freddo gelido di gennaio aggravò la pesante situazione, portando il numero delle vittime a più di 30.000 e con esse scomparve l’identità di interi paesi e città, tra i quali: Avezzano, Celano, Cerchio, Gioia dei Marsi, Collarmele, Aielli, Lecce nei Marsi, Ortucchio, Trasacco, Pescina, Balsorano, Morino, fino a Pereto, Carsoli, Pescasseroli, Opi…
Per accettare tale lutto immane dobbiamo ricercare nella profondità, nei sogni, nell’inconscio collettivo. Come visse il mondo questa tragedia, come si lesse la notizia, perché letterati e drammaturghi hanno ricordato nei loro scritti il terremoto, quale corda dell’anima personale e collettiva muove un “tale tremore”?
L’uomo vive in un mondo mobile, la terraferma è una convenzione che abbiamo costruito alla ricerca e nella pura illusione di una solidità fisica, nella consapevolezza, costante, incidente, latente che tutto si muove.
La terra ha un cuore pulsante, un’energia che fa scorrere vene di vita. E tutto si modifica, lasciando tracce e sedimenti, archetipi del tempo, miti di energia. L’umano pensare è grande quando è umile, ovvero, etimologicamente, vicino alla terra e in armonia con essa.
Occorre accettare l’idea della precarietà, del limite e della morte come parte integrante della forza generatrice della natura.

“Che altro debbo fare se non confortarla nel momento in cui se ne va e congedarla con buoni auspici? «Va’ con coraggio, va’ con letizia! Non esitare: è un ritorno. Non è in discussione il fatto, ma il momento: stai facendo ciò che prima o poi devi fare. Non supplicare, non temere, non tirarti indietro come se dovessi andare incontro a qualche sventura: la natura che ti ha generato ti attende, e ti attende anche una sede migliore e più sicura.
Lì non trema la terra, non s’azzuffano i venti con grandi cozzi di nubi, non vi sono incendi che distruggono contrade e città, non c’è il timore di naufragi che inghiottono intere flotte, non vi sono eserciti schierati con insegne contrapposte e un’identica furia di migliaia di uomini tesa al reciproco sterminio, non vi sono epidemie e pire fiammeggianti, comuni senza eccezioni a tutti i popoli che soccombono.»
La morte è cosa di poco conto: perché temerla? E un evento importante: che venga una buona volta invece di continuare a incombere. E io dovrei aver paura di morire quando prima di me muore la terra, quando ciò che scuote è a sua volta scosso e viene a farci del male non senza farlo a sé stesso?” Seneca, Ricerche sulla natura, libro VI, 4.1 -32.8.

“O neve del silenzio copri cenere e pane,
copri sogno… speranza… città copri terra di campo.
Calore del tempo e delle stagioni
fuoco nascosto dell’amore calma di bosco e di animale.
Un fiore risvegli tepore di seme di terra e di figlio.
Ogni suono è attutito.
Batte ancora un cuore sommerso di pietra,
di occhio infinito nel buio che è luce…
“Neve di vita” da “Lo zen bianco” (2002) di Gabriele Ciaccia
*Scrittore, poeta, sceneggiatore, registra e attore teatrale