Era lo sport di fatica e sudore. Poi venne il doping medico e… tecnologico. Ma il ciclismo è soprattutto la leggenda di Gino Bartali

Gino Bartali in azione (Foto della Federazione Ciclistica Italiana)

Il giro d’Italia è giunto ad Avezzano e il gruppo di strenui pedivellatori è stato accolto dall’abbraccio cordiale della Marsica. La gara evoca grandi gesti di sportività come il passaggio della borraccia tra Gino Bartali e Fausto Coppi ma anche cose tristi come il doping.

Per anni l’eritropoietina è stato il farmaco dopante d’elezione per il ciclismo, oggi vede la luce l’M101, un prodotto estratto dalle arenicole marine, un verme che vive sul fondo del mare usato come esca dai pescatori, ma che ora pare una panacea dopante.

Questa super eritropoietina ha una durata limitata ed è smaltita rapidamente dall’organismo, circa otto ore dopo l’assunzione, vanificando i controlli antidoping che sono effettuati un’ora dopo il termine della tappa, mentre per rilevare questa sostanza è necessario un prelievo entro quattro o otto ore.

Inutile dire che l’Agenzia Mondiale Antidoping (WADA) ha vietato la sostanza, come tutti i trasportatori di ossigeno a base di emoglobina.

Ormai il ciclismo dispone di biciclette eccezionali, sulle quali, però, aleggia il dubbio del doping elettrico. Non è una nuova droga a base di Duracell da iniettare nel ciclista, ma un ritrovato meccanico che si applica alla bicicletta. Questo è quanto trapela dal mondo del ciclismo. I sospetti riguardo alcune biciclette truccate.

Facciamo un passo indietro nel tempo. Qualche settimana dopo la le vittorie di Fabian Cancellara al Giro delle Fiandre e alla Parigi-Roubaix, iniziò a circolare una voce sull’utilizzo di una bici “truccata”.

Qualcuno parlava di un veicolo che al suo interno nascondeva un vero e proprio motore elettrico collegato agli ingranaggi del movimento e nascosto nel piantone della sella, alimentato da una minuscola batteria.

Ne parlarono “Il Giornale”, “L’Avvenire” e poi la RAI che realizzò un servizio sull’argomento con l’ausilio del campione Davide Cassani.  

Nelle gare odierne, se ci fate caso, tra il pubblico che assiste alle volate sono presenti persone dotate di telecamere termiche. La telecamera lavora sulla differenza di temperatura tra la bici e il calore prodotto dal motore, che lavora tra ai 40 e i 200 watt. L’apparecchio serve per rilevare l’uso del dispositivo, manco a dirlo, vietato.

Non solo motori per truccare le bici ma anche una miracolosa ruota a induzione magnetica. Viene additata come ultima diavoleria in un uso ai ciclisti professionisti. Pur ripassata varie volte ai test, gli indici delle apparecchiature di rilevamento non si muovono dallo zero. La ruota appare essere una semplice ruota da bicicletta. Vista ai raggi X, però, mostra le sue brave placche magnetiche al neodimio e i cavi per la trasmissione di energia. In questo modo il motore sta direttamente sulla ruota alimentandosi con la batteria e il movimento. L’ambaradàm si basa sul principio del Ponte di Jonhson.

Il dispositivo formato da magneti nella ruota attivati da una spira magnetica posizionata sotto al tubo di sella permette di guadagnare almeno 60 watt. E’ l’equivalente di un sesto della potenza massima sprigionata da un ciclista di circa sessanta kg al massimo dello sforzo. Questo trucco non è rintracciabile ai controlli a meno di usare un rilevatore di campo potentissimo.

 “Gli è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare” soleva dire il grande Gino Bartali quando la discussione verteva attorno ai problemi del ciclismo su strada e quanto avrebbe avuto ragione oggi… .

Autotrasfusione, eritropoietina, M101, doping elettromeccanico sono i malanni, gravi, che affliggono questo sport. Sembra che il primeggiare per la sola capacità individuale (o di squadra) passi spesso in secondo piano. In fondo se pedalare è la gallina dalle uova d’oro tanto vale trovare il sistema per accaparrarsele col minimo sforzo e tutto questo con buona pace dei principi etici, morali e sportivi. Riuscite ad immaginare un pool di tecnici, il cui scopo finale è quello di barare, infilare un motore elettrico nella canna di una bicicletta al fine di far vincere una tappa? Ebbene pare che questo sia, per qualche corridore pedalante, il mezzo unico per raggiungere la vittoria.

Sono meschinità che sminuiscono atleti e società e che rendono dubbi gli esiti di grandi manifestazioni importanti e dispendiose quali il Giro d’Italia e quello di Francia dove, in trascorse edizioni, l’ombra di questa “elettro-truffa” s’è allungata tristemente.

Per fortuna ci sono stati anche grandi campioni, vincitori a tutto tondo che sono stati di  esempio non solo al mondo sportivo ma a tutti e uno di questi è stato proprio Gino Bartali.

Non tutti sanno che il campione fu contattato dall’arcivescovo di Firenze Elia Angelo Dalla Costa ed entrò a far parte nel 1943 dell’organizzazione clandestina DELASEM (Delegazione per l’Assistenza degli Emigranti Ebrei). Fra il settembre di quell’anno e il giugno del 1944 compì la sua missione umanitaria. Partiva dalla stazione di Terontola – Cortona e a volte si spingeva sino ad Assisi, in sella alla sua bicicletta, trasportando documenti e fototessere all’interno dei tubi del telaio in modo che una stamperia, segretamente, potesse poi falsificare i documenti necessari alla fuga di ebrei rifugiati.

Il Nostro usava, come copertura, gli allenamenti alle gare e percorreva chilometri su chilometri. Il suo lavoro sconosciuto contribuì a salvare centinaia di Ebrei in fuga da altre nazioni Europee.

Alcune volte si allenava assieme ai suoi compagni di squadra che, però, nulla sapevano dello scopo segreto dei suoi viaggi. Se la polizia li fermava a qualche posto di blocco, Bartali teneva occupate le guardie chiacchierando di ciclismo e qualora qualcuno voleva controllare la bicicletta, Bartali li convinceva a non farlo con la scusa che i componenti erano assemblati insieme in modo non convenzionale per adattarsi alle sue caratteristiche di corridore.

Non tutto filò sempre liscio. A causa della guerra, le corse ciclistiche professionistiche erano state eliminate. Bartali si trovò senza copertura. Nel luglio del 1944, quale sospettato, vide aprirsi i cancelli di Villa Triste a Firenze. Era, il posto dove i Fascisti imprigionavano e torturavano i loro oppositori. Caso volle che uno degli ufficiali incaricati del suo interrogatorio era il suo comandante nell’esercito. Questi convinse gli altri che Bartali era completamente estraneo a tutte le accuse.

Dopo la fine della Guerra e per molti anni Bartali non fece mai cenno sul ruolo da lui avuto nel salvataggio di centinaia di persone. Fu solo dopo la sua morte che il suo contributo venne alla luce.

La sua abnegazione salvò circa 800 persone, così dichiarò nel 2005 il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi durante il conferimento postumo della medaglia d’oro al merito civile.

A quello seguirono altri riconoscimenti quali l’inserimento tra i “Giusti dell’Olocausto” nel Giardino dei Giusti del Mondo di Padova. Il 23 settembre 2013 venne dichiarato “Giusto tra le Nazioni”dallo Yad Vashem, l’Ente nazionale per la Memoria della Shoah. Il suo nome sarà  ricordato eternamente da una stele sul monte Herzl nei pressi di Gerusalemme.

Il 2 maggio 2018, ricevette la nomina a cittadino onorario di Israele.

Yad Vashem, Il museo dell’Olocausto di Gerusalemme motiva così l’onoreficenza: “un cattolico devoto che, nel corso dell’occupazione tedesca in Italia, ha fatto parte di una rete di salvataggio i cui leader sono stati il rabbino di Firenze Nathan Cassuto e l’Arcivescovo della città cardinale Elia Angelo Dalla Costa” (già riconosciuto Giusto tra le Nazioni).

“… Questa rete ebraico-cristiana, messa in piedi a seguito dell’occupazione tedesca e all’avvio della deportazione degli ebrei, ha salvato centinaia di ebrei locali ed ebrei rifugiati dai territori prima sotto controllo italiano, principalmente in Francia e Yugoslavia”.

Il chirurgo Valdoni e Togliatti

Alle 11.45 del 14 luglio 1948, l’allora segretario del Partito Comunista Italiano Palmiro Togliatti usciva da Montecitorio, quando Antonio Pallante, uno studente, gli sparò tre colpi di pistola. L’esponente politico sopravvisse, ma quel gesto ebbe forti ripercussioni: scioperi e cortei di protesta fecero temere l’incipit di una guerra civile, o una rivoluzione comunista.

In quel periodo era in corso il Tour de France e Bartali alla tenera età di 34 anni trionfò contro ogni aspettativa, rendendosi protagonista di una sequela di leggendarie fughe sulle Alpi.

Bartali vince al Tour de France

Pare che quella vittoria coinvolse così tanto il popolo italiano da diminuire la tensione politica post attentato. Leggenda narra che, per raffreddare gli animi, gli stessi Andreotti e De Gasperi avessero parlato con Bartali implorandolo di vincere perché quell’impresa avrebbe sicuramente distratto gli italiani. Così andarono le cose. Sempre la leggenda racconta che il ciclista, all’indomani del trionfo, ricevuto da De Gasperi, scelse come premio per l’impresa di non dover più pagare le tasse!

“Ginettaccio” era terziario carmelitano. Fu sepolto nel 2000 negli abiti di terziario. Aveva 96 anni.

I veri campioni non hanno bisogno di motorini sotto al sedere, non truccano le loro vittorie e sono campioni anche nella vita. Bartali fu uno di questi, campione sempre

Un saluto