“I poveri li avrete sempre con voi…”: un’analisi del prof. Sandro Valletta sulla vita di strada e sulle marginalità estreme in Italia

Una finestra aperta sul mondo dei marginali e sui diversi aspetti politici, etnici, sociali, religiosi e culturali che ne compongono le molteplici realtà, dopo il comunicato, di qualche giorno fa, della Dott.ssa Lidia Di Pietro, vice direttore della Caritas Diocesana, dal titolo: “Aumentano le richieste di aiuti alimentari, molte le famiglie sulla soglia della povertà: la Caritas Diocesana di Avezzano lancia una raccolta di beni alimentari” e la pubblicazione, di oggi, della dichiarazione “Dignitas infinita’.

I senza tetto, i senza fissa dimora, i senza documenti, i senza salute e senza assistenza, i senza sicurezza, i senza garanzie civili, i senza identità, i senza soldi, i senza famiglia e senza amici. Tutti hanno in fondo un’unica origine e un unico tema: l’assenza.

La loro è una condizione “senza rete”, di privazione ed emarginazione, che tanto più colpisce quanto più coincide con la vita per strada, un luogo che, invece, tutti frequentiamo ogni giorno, pieno di vita, di rumore, di luci, di consumi, di socialità.

Ogni titolo, ogni etichetta, risulta, infatti, parziale perché si riferisce a una caratteristica e ne lascia in ombra altre: c’è chi la barba se la fa e quindi, con orgoglio disarmante, rifiuta di essere definito barbone, chi ha una casa e qualche soldo. C’è chi è, inaspettatamente, precipitato in strada per un rovescio di fortuna, per un divorzio, per le botte del convivente, per la perdita del lavoro, per uno sfratto, per un lutto. Chi è scivolato sotto i ponti per la tossicodipendenza o per una malattia. Chi gradisce assistenza e chi la rifiuta. Chi la strada l’ha scelta e chi l’ha subita. Chi la vive come libertà e chi come violenza o, ancora, come il proprio spazio naturale, quasi irrinunciabile.

Ma il tratto comune è che ci si riferisce agli esclusi del nostro tempo, dove, dietro di essi ci sono le “povertà estreme”. Fino a qualche anno fa essere povero significava essere disoccupato. Oggi la condizione di povertà coincide con la mancanza di prospettive per superare la povertà stessa con orizzonti che progressivamente si chiudono sempre di più. La mia sensazione è che questa condizione era sentita come un onere collettivo, come un fronte su cui convergeva l’impegno civile e politico.

Oggi è molto più facile che la reazione sia quella di lasciare solo il disoccupato, l’anziano, il barbone, l’ex detenuto, l’immigrato irregolare e di adottare comportamenti e politiche tesi a difendere i privilegi di chi è integrato nel sistema e ne accetta le regole. In termini concreti, questo ha comportato la scelta di far arretrare la linea di protezione del welfare, accentuando la solitudine e la marginalizzazione di chi si trova a vivere fuori dagli schemi, sempre più “senza rete”.

I cosiddetti barboni sono solo la punta emergente di una nuova questione sociale, estesa e pressante, sempre più visibile, che richiede un diverso approccio etico, oltre che politico e amministrativo. La risposta, come spesso accade quando si affrontano le più gravi questioni sociali delle nostre città, non può che essere capillare, il più possibile tagliata a misura del singolo caso che si sta affrontando.

Spesso, e a livello dei governi locali,  questo si vede con chiarezza, la chiave è nel coinvolgimento di attori diversi: le istituzioni cittadine in prima fila insieme alle associazioni di volontariato, ma anche le imprese, i commercianti ed i sindacati, il sistema sanitario pubblico e privato, ciascuno con ruoli, pesi e responsabilità ben determinati. Perché in ogni comunità esistono competenze specifiche e responsabilità diffuse, e un comune dovere morale di contribuire al benessere di tutti.

Non mi riferisco solo ad un benessere materiale ed economico, ma anche al riconoscimento dei diritti fondamentali di ogni individuo, non importa se senza documenti o senza residenza, e la garanzia che possa avere dei diritti che nessuna scelta di vita possa far disconoscere o cancellare. Un’amministrazione che abbia preso l’impegno di costruire una comunità in cui nessuno si senta solo deve farsi carico di questa richiesta.

Deve, altresì, predisporre una rete di interventi a più livelli, perché, appunto, le esigenze sono molteplici e nel tempo possono modificarsi in modo significativo. Per costruire un modello di città solidale abbiamo bisogno di disporre di un sistema integrato e coordinato di competenze e risorse capace di gestire insieme l’emergenza e l’ordinarietà del disagio più estremo.

Per questo la questione sociale deve far parte, in modo strutturale, delle politiche economiche, sanitarie e scolastiche di una città, deve essere un filo che attraversa tutte le voci di bilancio: per far fronte alle emergenze bisogna poter contare su una disponibilità ordinaria di persone e mezzi. I barboni attraversano il nuovo spazio rimanendo invisibili, abitano il nostro mondo, ma sembrano appartenere ad un altro.

È vero! Ma questo non può costituire un alibi per la nostra indifferenza. Il nostro compito, come cittadini, è quello di costruire ponti che conducano fuori dal disagio, o almeno ne attenuino la morsa. Anche e soprattutto al beneficio di chi in un momento di disperazione o di ribellione si è invece tagliato tutti i punti alle spalle, e scopre, in una fase successiva della vita, di avere bisogno di un riparo, di un contatto, di un appoggio. Anche e soprattutto a beneficio di chi vuole conservare la propria dignità di uomo, visto che l’elemosina non basta per sopravvivere per strada.

Quello delle persone senza fissa dimora è un fenomeno in continua crescita che caratterizza soprattutto le città ricche. Sono il prodotto tipico di società selettive, dove non riescono a reggere il ritmo della continua competizione, ma neppure a restare appena a galla in un mondo di gente in corsa, dove tutti devono e vogliono apparire forti, intelligenti, potenti, lanciati verso il successo. Il barbonismo, nel fenomeno più generale della “esclusione abitativa”, comprende, oltre ai tipici senza fissa dimora, anche moltissimi immigrati, alcuni malati psichiatrici trovatisi improvvisamente senza assistenza né garanzia alcuna ed un alto numero di vagabondi.

Molti di loro provengono da un’esperienza traumatica di perdita del nucleo familiare a seguito di vedovanza o divorzio. Tra loro ci sono numerosi tossicodipendenti, non solo giovani, che hanno tagliato i ponti con le famiglie e le strutture di recupero. Tante tra queste persone rifiutano l’assistenza notturna e sovente anche quella diurna dei vari servizi sociali.

Bisogna porre al centro dell’attenzione il senza fissa dimora non come passivo contenitore da riempire di aiuti e sostegno ma come potenziale protagonista ed artefice del proprio cambiamento. Non solo portatore di bisogni, ma anche di desideri, di volontà e di capacità progettuali. Bisogna dire che non è solo aumentato il numero delle persone che vivono sulla strada ma sono cambiati gli attori e le loro storie.

È rimasta una costante, però: la metropoli vissuta direttamente sulla strada è sempre terribile, pericolosa, angosciante. Anche rispetto alle cause che determinerebbero la condizione di senza dimora la questione è molto complessa, più di quanto si crede. Raramente si tratta di un evento traumatico che altera all’improvviso un equilibrio. La maggior parte delle volte sono casi in cui si verifica l’aggravamento di una condizione individuale e familiare a seguito di un’accelerazione di eventi destrutturanti o di fallimenti nelle strategie esistenziali che si cumulano nel tempo.

Vi sono delle eccezioni, come quei casi di percorsi di vita assolutamente ordinari, che subiscono un cambiamento dopo un evento imprevisto e fortemente traumatico, come ad esempio la perdita del lavoro o della autonomia personale per problemi sanitari, oppure individui coinvolti in condizione di marginalità.  Oppure, ancora, persone che, con un lavoro anche a tempo indeterminato, in seguito alla separazione dal coniuge, si ritrovano nell’impossibilità di mantenere lo status precedente e, in carenza di reti sociali, sono costrette a vivere in macchina, in strada o in un centro di accoglienza, per un lungo periodo.

La condizione di povertà urbana estrema è oggi un’esperienza più probabile e frequente che in passato.  Capita cioè anche a persone un tempo garantite, di passare un periodo, più o meno lungo, sulla strada. Sulle strade delle nostre città oggi troviamo anche madri con figli minori, un fenomeno prima nemmeno immaginabile. Le reti di welfare cercano di attrezzarsi anche per questo.

Ci stiamo avvicinando a un modello esistenziale che per decenni è stato solo un riferimento culturale, quello americano. E invece la realtà è più complessa, fatta di traiettorie processuali in cui assumono un peso decisivo le micro-fratture quotidiane, quelle progressive perdite di senso della vita che la strada acuisce: qualcosa che non dà più, come la teoria dell’evento traumatico, il senso di una causa che scatena un effetto, ma che invece richiama la comune difficoltà a tirare avanti, adattarsi a una società sempre più competitiva, precaria, individualista.

Se un tempo le persone senza dimora erano caratterizzate da una vulnerabilità sociale congiunta a una fragilità individuale, nella società del rischio non è più solo così. Oggi siamo di fronte a molteplici ed eterogenee forme di povertà e di marginalità sociale distribuite sul territorio. Per questa ragione non è possibile predisporre sistemi analitici e interventi di politiche sociali di contrasto come se vi fosse una  sola  forma di povertà.

A fronte di un aumento consistente della domanda di ospitalità notturna, c’è un’utenza, multiproblematica o meno, che ha necessità di un intervento socio-assistenziale qualificato. Se è vero che non esistono cause uniche determinanti l’emarginazione, significa che, da un lato, le politiche d’intervento in favore delle persone senza dimora necessitano di un percorso articolato attraverso modelli di intervento molteplici; e dall’altro che non c’è nessuna soluzione valida per tutte le situazioni. Non esiste una via unica, standard, di uscita dalla crisi della presenza. Il welfare tradizionale, anche nelle sue forme più universalistiche, ha difficoltà a integrare nella propria prassi quotidiana.

Il fatto che le povertà urbane estreme possono essere affrontate solo se si abbandona il modello privatistico e promozionale dell’intervento, un modello che ha, come sottolinea Giovanni Pieretti, un sapore medicale. Molte delle persone che vivono sulla strada per un lungo periodo hanno bisogno di un affiancamento, un lavoro di prossimità che permetta di ristabilire un contatto con forme di realtà progressivamente perdute. Inoltre, in una società nella quale le fasce di nuovi poveri sono in crescita imponente, il welfare locale non ha, né può avere, gli strumenti idonei per una politica di prevenzione reale dei processi di emarginazione che avvengono a un livello superiore, nell’ambito del sistema macro-economico e sociale.

Il gruppo di lavoro della Fio.psd, la Federazione italiana organismi per le persone senza dimora, sostiene che la situazione di coloro che vivono sulla strada sia oggi un’emergenza estrema. Tale affermazione, volutamente ambivalente, esprime, da un lato, la gravità della condizione di vita delle persone che si trovano in stato di marginalità estrema e la necessaria urgenza per la quale occorrono risposte ai bisogni; dall’altro lato, tale interpretazione pone la condizione di marginalità estrema in continuità con il percorso di progressiva e inesorabile “fragilizzazione” dei diritti e dei legami di cittadinanza e della diffusione di una povertà tipica del modello di sviluppo neoliberista oggi in forte espansione in tutto il pianeta.

Le persone senza dimora, in questa prospettiva, sono solo la punta di un iceberg rispetto a un fenomeno più ampio di impoverimento generalizzato e diffuso, pur con differenti gradi di intensità, dinamiche e percorsi. Con il venir meno delle reti sociali tradizionali (familiari, amicali, territoriali, lavorative) la “questione dei diritti” in senso lato assume un’importanza  anche strategica a livello di politiche sociali.

Occorre garantire l’accesso almeno ai beni primari. In una società sempre più multiculturale quando non proprio transculturale, ampliare l’accesso dell’accoglienza notturna, ad esempio, significa aumentare la possibilità di inserimento sociale, significa garantire la base dei diritti di cittadinanza, poiché senza privacy, ovvero sulla strada, risulta difficile esigere anche i diritti più elementari.

Questo è un punto sul quale è necessario concentrare le già esigue forze sociali oggi in campo. Con il termine ambiguo e convenzionale di marginalità sociale, si intende qui identificare quegli attori che, metaforicamente, vivono ai margini della società, presupponendo in tal modo che questa abbia dei confini certi. In realtà così non è. Esistono molte “zone grigie”, in contatto funzionale, di interazione, le une con le altre.

Una persona senza dimora che abbia reti sociali funzionanti attorno a sé (economiche, familiari, amicali, lavorative) ha meno probabilità di entrare nell’area del non ritorno, rispetto ad altri soggetti più esposti che non sono in grado di rendere esigibili i propri diritti.

Alcuni dei protagonisti vivono accomunati da un elemento ormai naturale per la nostra cultura: la strada della metropoli. La condizione di quanti vivono senza dimora, prostituendosi, vagabondando, migrando, spacciando droga, compiendo atti di micro-criminalità, si ritrova infatti spesso sulla strada, nei bar notturni, negli interstizi urbani. Sono homeless, bitch, pusher, tramp, junkie, marginalità estreme.

L’aggettivo estremo indica un confine ultimo oltre il quale c’è il nulla. Per chi vive in condizione di marginalità sociale estrema, i limiti sono già stati superati da un pezzo.

“I poveri li avrete sempre con voi”, suggerisce il Cristo nel Vangelo: ma l’annuncio non invita al fatalismo e alla rassegnazione. Indica, al contrario, che l’impegno del cristiano e dell’uomo di buona volontà è quello di ricordarsi ogni giorno della propria vita, che c’è qualcosa da fare per gli altri: un sorriso e una parola d’affetto valgono molto di più d’una elemosina gettata lì, con sufficienza e sussiego.

                       Prof. Sandro VALLETTA 

Docente in Diritto delle migrazioni     

Studioso di Antropologia delle marginalità estreme e politiche sociali in Italia