Foraggiamento dei “Cuccioli di Amarena”. Lettera a Ministero dell’Ambiente, Regione e Pnalm della “Società per la storia della fauna”

PESCASSEROLI – Si intensifica il dibattito in merito al foraggiamento degli animali selvatici nel Pnalm, e nelle altre aree protette d’Abruzzo, in particolar modo riguardo al caso dei Cuccioli di Amarena.

Dopo gli interventi del Pnalm e dello zoologo Paolo Forconi, oggi registriamo la presa di posizione, con una lettera inviata a Ministero, Regione e Pnalm, del Presidente della Società Italiana per la storia della fauna, Corradino Guacci.

Questo il testo integrale della lettera di Guacci.

Corradino Guacci

Il Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise ha recentemente contestato l’utilità del foraggiamento in supporto degli orsetti orfani di Amarena, svolto questo inverno da un privato cittadino: https://www.facebook.com/parcoabruzzo/posts/857168223117066?ref=embed_post

È da premettere che l’autore del gesto non è un “passante per caso” ma si tratta di uno zoologo, che segue da anni sul campo -con passione e competenza- le vicende dell’orso bruno marsicano e che ha ritenuto, a fronte dell’apparente inerzia degli Enti preposti, di intervenire personalmente: https://www.facebook.com/1292284165/videos/442672474836625/

Ora, se da un lato è comprensibile la preoccupazione dell’Ente in merito a un possibile effetto emulativo, con conseguenze pericolose per gli stessi orsi qualora tali interventi venissero condotti da cittadini in buona fede ma privi di conoscenze scientifiche, dall’altro, conoscendo la realtà del Parco dalla seconda metà degli anni Settanta, riteniamo doveroso portare un contributo alla discussione.

Però richiamare, come fa l’Ente, le esperienze messe in campo dal Parco riducendole a un anno e mezzo (1985-86), è del tutto riduttivo.

Infatti, le campagne alimentari sono state attuate fin dal lontano 1969 e sono proseguite almeno fino al 2011 mentre i punti di alimentazione temporanei sono stati eseguiti per tutti gli anni Ottanta e fino al 1994.

Detti siti (carnai, carotai ecc.) venivano predisposti non solo nei periodi pre e post ibernazione, ma ogni qualvolta se ne verificava l’occasione e la disponibilità di risorse. Bovini, equini e selvatici come i cervi, vittime di incidenti o di patologie non trasmissibili all’orso venivano, indipendentemente dal periodo dell’anno, messi a disposizione della fauna del Parco.

Appare evidente che essendo quest’ultima composta da animali opportunisti fosse del tutto normale l’utilizzo anche da parte di cinghiali, volpi, lupi, cervi ecc. Ciò non vuol dire che non siano stati utili per l’orso.

Oltretutto, andare a pescare tre rapporti di controllo dei siti tutti eseguiti tra ottobre e novembre 1983 per motivare una presunta inefficacia di tali pratiche è, quantomeno, fuorviante.

Paolo Forconi

Esiste tra l’altro un’ampia documentazione fotografica della presenza dell’orso sui siti di alimentazione. Significative, a tal proposito, le foto realizzate dal capoguardia Giuseppe Di Nunzio.

Per quanto riguarda l’attività di alimentazione supplementare questa venne ripresa nel 1999 con un bando quinquennale (1999-2003), alla cui scadenza fu avviato un piano di monitoraggio sulle piante da frutto selvatiche (meli, peri e susini) e si decise di riavviare la coltivazione, dietro incentivo, di piccoli campi agricoli.

Lo stesso accadde nel 2008 con il progetto di campagna alimentare “Un orso per amico” in collaborazione con l’associazione “Montagna grande onlus”.

L’anno dopo venne pubblicato un bando triennale (2009-2011) per la semina di essenze appetite dall’orso e venne anche realizzato un campo sperimentale a Pescasseroli, utilizzando il “recinto Finamore” una tecnica costruttiva che consentiva l’accesso al coltivo (carote, mais ecc.) esclusivamente al plantigrado, impedendolo ad altri potenziali fruitori come cervi e cinghiali.

Nel 2010 poi la realizzazione di un frutteto nel territorio di Bisegna con un finanziamento di 10.000 euro nell’ambito del progetto “La mela dell’orso” sostenuto da Federparchi ed Enel.

Nel 2012 infine, in collaborazione con le Associazioni, Montagna Grande e Orso and Friends, vennero recuperati frutteti abbandonati dagli agricoltori, riattivando circa 470 piante di melo e pero selvatico e sorbo e piantate ex novo 100 piante di ramno, corniolo ed uva spina.

Ma, proprio in quegli anni, l’arrivo al Centro Studi dei ricercatori della Sapienza di Roma produsse un radicale cambio di paradigma: l’orso bruno marsicano doveva alimentarsi esclusivamente con risorse “naturali” modificando, dall’oggi al domani, abitudini consolidate in secoli di frequentazione con l’uomo e le sue attività.

Nel frattempo, nel 2007, il Corpo Forestale dello Stato aveva effettuato uno studio  sulla fruttificazione delle principali risorse trofiche per l’orso, faggiola e ghianda. Lo stesso PATOM (Piano di azione nazionale per la tutela dell’orso bruno marsicano) nel prendere atto dell’importanza dei dati così acquisiti auspicava “un monitoraggio pluriennale della produzione e quindi della fluttuazione della produzione di ghianda e faggiola, parallelamente al monitoraggio delle femmine con piccoli dell’anno, potrebbe quindi anche permettere di valutare quanto la produttività della popolazione di orso sia correlata all’abbondanza di queste risorse”.

Foto Valerio Minato

Ma a oggi non risulta che tali studi siano presi in considerazione dal Parco che continua ad affermare che non esiste un problema di risorse trofiche per l’orso, neanche nelle annate di scarsa o nulla fruttificazione della faggiola, l’alimento principale per l’orso.

Da qui le pratiche di dissuasione poste in essere nei confronti degli individui, soprattutto giovani e femmine con i piccoli, che nelle annate di scarsa produttività di frutta selvatica e faggiola, tendono a frequentare maggiormente i centri abitati.

Una modalità che noi riteniamo estremamente pericolosa per gli orsi, perché li costringe a spostarsi di paese in paese esponendosi così a rischi di ogni genere.

Un esempio valga per tutti: Amarena, che dopo il parto quadrigemino era diventata un’attrazione tanto che le era consentito di frequentare in tranquillità i centri del Parco, alimentandosi senza problemi, è riuscita a crescere e a portare oltre il secondo anno tutti e quattro i piccoli, una performance eccezionale per un plantigrado.

Ma il successivo parto di “soli” due piccoli non le ha conferito l’attenzione e, di conseguenza, l’immunità di cui aveva goduto in precedenza, con la conseguenza che gli spostamenti a cui è stata costretta hanno avuto il drammatico epilogo che tutti conosciamo.

Ma la posizione del Parco continua a rimanere ferma sulla inesistenza di un problema alimentare con affermazioni che hanno più del fideistico che dello scientifico come, ad esempio: “inoltre, come si può parlare di carenze alimentari se tra tutti gli orsi che monitoriamo o che abbiamo catturato, nonché tutti quelli oggetto di foto o video che riempiono i social, non ce n’è uno denutrito?”. Ora, per sostenere una correlazione tra orsi catturati e orsi denutriti bisognerebbe presentare a corredo uno studio che incroci epoca di cattura, età e genere dei soggetti, perché è chiaro, ad esempio, che un maschio adulto ha più possibilità di un giovane o di una femmina di competere per le fonti alimentari.

Luciano Sammarone

Altrettanto disinteresse si deve rilevare in merito alla competizione alimentare nei confronti dell’orso da parte di Ungulati che hanno la stessa dieta (cervi e cinghiali), presenti in gran numero nel territorio del Parco. Ma anche su questo tema non sono noti studi effettuati dall’Ente che pure è dotato di un Servizio scientifico che dovrebbe essere a ciò preposto.

Così come non si può scartare l’ipotesi che a contribuire al 40% di decessi dovuti a cause ignote (dati del Parco su 112 decessi censiti tra il 1971 e il 2015), possa esserci anche la malnutrizione.

Il Giappone, ad esempio, che vanta consistenti popolazioni di orso bruno (Ursus arctos lasiotus) oltre 10.000 individui nella sola isola di Hokkaido e di orso nero asiatico (Ursus tibetanus japonicus) in tutto il territorio altri e 10.000 esemplari, oltre a istituire banche genetiche per attenuare possibili rischi futuri, studiano come prevedere la presenza degli orsi nei centri abitati in conseguenza del livello di fruttificazione di alcune essenze appetite dai plantigradi , tutto ciò in funzione di una mitigazione di eventuali conflitti.

Altrettanto fideistica appare l’affermazione “Siamo sicuri che gli orsi avrebbero superato i mesi invernali anche senza cibo supplementare”. Infatti, dopo aver tentato inutilmente, per quattro giorni, di catturare i piccoli si è deciso di lasciarli al loro destino premettendo, a futura memoria, che il 50% dei piccoli normalmente non sopravvive…

A quando uno studio sulle cause di questa mortalità? Infatti, chi può escludere che la ridotta produzione di latte da parte di femmine sottoalimentate non concorra, in quota parte, alla citata percentuale?

I mantra ora di moda negli ambienti del Parco recitano “non dobbiamo interferire con la Natura” oppure “la Natura deve fare il suo corso”, enunciazioni queste ultime che possono essere senz’altro condivisibili a fronte di una popolazione di diverse migliaia di individui, ma con un nucleo superstite di appena una cinquantina di esemplari, di una sottospecie unica al mondo minacciata di estinzione, appare un atteggiamento irresponsabile.

Noi continueremo a sostenere con fermezza che non possiamo permetterci di perdere anche un solo esemplare e che la dissuasione deve essere applicata principalmente nei confronti dell’Uomo e dei suoi comportamenti errati.

Così come ribadiamo la necessità di istituire una banca genetica dell’orso bruno marsicano che consenta, in caso di eventi drammatici che mettano in pericolo la residua popolazione, di ricostruire nuclei vitali della sottospecie.

Il Ministero dell’Ambiente Gilberto Pichetto

Proposta quest’ultima già contestata dall’ISPRA (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) che, al contrario, suggerisce di “importare” orsi della sottospecie europea cancellando in tal modo un esperimento evolutivo che la Natura sta conducendo da millenni.

Una ipotesi a nostro avviso “irricevibile” alla luce di una corretta politica di conservazione.

Per concludere è assolutamente vero che sul tema della integrazione alimentare esistono posizioni diverse ed esperienze contrastanti, ma non si comprende perché il Parco prenda per buone solo quelle negative a favore delle sue tesi.

In appendice riportiamo alcuni lavori che, al contrario, valutano positivamente questa pratica e citiamo il brano di un recente studio, che ha coinvolto esperti di orsi di diverse nazionalità, e che sembra convalidare quanto attuato a favore dei piccoli di Amarena:

“Se l’alimentazione supplementare deve essere utilizzata per la mitigazione dei conflitti tra uomo e orso, una revisione completa della letteratura suggerisce che la massima efficacia con effetti collaterali minimi si ottiene con il posizionamento temporaneo, stagionale e al bisogno di alimenti naturali (Taylor & Phillips 2019). L’impiego di questa strategia incoraggia lo sfruttamento delle fonti alimentari naturali e scoraggia la dipendenza da alimenti supplementari di origine antropica”». Il Presidente della Società italiana per la storia della fauna, Corradino Guacci