Cosa significa soffrire? E come trasformare la sofferenza nel coraggio di guardare oltre? La storia di un uomo su una panchina

Quante volte capita di definire il proprio modo di agire, di rispondere, di chiedersi se sia giusto o sbagliato un pensiero o un comportamento.

Verso noi stessi, verso gli altri. Verso la vita.

Ecco, questa, la prima grande trappola della mente.

Ingabbiata, chiusa, bloccata nella morsa del giudizio che ci rende schiavi di ogni scelta.

Tutti conosciamo la malattia.

Tutti, la sofferenza.

Ma cosa significa “soffrire”?

Significa esprimere un tormento interiore, lasciare spazio ad un pensiero o un dolore che non dà tregua, che si riversa solo su noi stessi.

Soffrire ci fa capire quanto poco ci ascoltiamo, quanto poco amore ci dimostriamo, quanto poco vogliamo scoprire della scintilla che vibra in ognuno di noi.

Spesso, non curanti del potere personale che caratterizza l’uomo, dimentichiamo che abbiamo la possibilità di scegliere e soprattutto di trasformare questa sofferenza, vivendo.

Ognuno col proprio sentire, ognuno col proprio pensare: il coraggio di “mollare” il giudizio e di entrare a contatto con quell’intima parte che negli anni può aver innalzato il muro di un espugnabile castello di sabbia.

Sì, proprio di sabbia.

Perché il coraggio di “guardare oltre” che apre alla profonda comprensione, spazza via anche il granello più piccolo e lascia spazio alla luce che ri-illumina il tragitto dell’esistenza.

E così il dolore si trasforma, e con esso, la malattia.

Il nostro futuro si crea nel momento in cui cambiamo l’atteggiamento emotivo verso il presente.

Chiara Ziveri

                                                                                                         

LA PANCHINA

Mi sedetti sulla panchina della piazza lasciandomi cadere, ultimamente le passeggiate mattutine, che mi avevano sempre ridato vita, diventavano ogni giorno più pesanti a causa degli insistenti dolori alle ginocchia.

Energia e buonumore sembravano sepolti da chili di sabbia soffocante.

L’estate era ormai alle porte e con l’asciugarsi delle prime ore fresche del mattino, l’arsura del sole iniziava a picchiare rendendo ancora più insopportabili quei dolori e quella stanchezza.

Appoggiai entrambe le mani al manico del bastone che ormai usavo per aiutarmi a camminare e mi accorsi di ansimare vistosamente.

La piazza era ancora poco affollata, solo qualche mattiniero che si recava al bar per fare una colazione veloce e qualche bimbo che correva intorno alla statua centrale godendosi la giocosità degli ultimi giorni di scuola.

Da 3 anni avevo perso la mia Adele e da allora faticavo in tutto, avevamo avuto 2 figli e ora ero nonno di due splendidi maschietti uno di 7 anni e uno di 9;

mi ricordai di quanto li avevamo adorati fin da piccoli io e mia moglie, impegnati a viziarli come mai avevamo fatto con i nostri figli.

Mancava come uno squarcio in pieno petto quella dolcissima saggia donna che avevo avuto la fortuna di amare e sposare, se ne andò nel sonno senza avvisare nessuno.

“Buongiorno Nerone!” alzai lo sguardo con un sussulto, distolto da pensieri che stavano diventando sempre più profondi.

Riconobbi Aldo, un caro amico della nostra famiglia, i capelli canuti e folti gli donavano qualche anno in meno, ma era soprattutto la sua inspiegabile energia di benessere che non capivo da dove venisse:

“Oh Aldo caro, come stai? Queste ginocchia oggi non mi fanno respirare, il destro sembra infuocarsi in certe giornate”.

Aldo aveva sempre avuto dei tempi lunghi di risposta nei quali sembrava non ti avesse minimamente ascoltato, esplorava il vuoto in silenzio con quel mezzo sorriso che gli distendeva ancora di più le pieghe del viso:

“Nerone…” iniziò prestando attenzione a scandire bene le parole:

“Verso cosa fai così fatica ad inginocchiarti?” – per un lungo attimo non riuscivo a capire cosa mi stesse chiedendo; stavo per rispondergli di getto che non riuscivo più a inginocchiarmi per rimestare la terra dei girasoli in giardino che erano stati i fiori preferiti di Adele e in quell’istante il tempo si fermò, voltai lo sguardo sulle mie mani strette sul bastone, le nocche sbiancate per quanto lo stavo stringendo.

Il nodo salì impietoso in gola e capii.

Guardai Aldo lasciando scendere lacrime di consapevolezza dolorosa.

Aldo mi mise una mano calda sulla spalla, strinse la mascella per cercare di vincere l’affettuosa commozione che coronava il suo cuore compassionevole e continuò:

“Molto tempo fa, Nerone, ho imparato che non è ciò che ci accade a piegarci ma è il colore che noi gli diamo, come ci atteggiamo verso questo o quell’evento e soprattutto come lo giudichiamo.

Se in partenza decidiamo che quella è una tragedia allora così sarà capisci? Invece le cose accadono senza una definizione precisa, siamo noi a dargliela”.

Si fermò rilassando la schiena sullo schienale ancora umido della panchina in legno scuro, mentre teneva ancora la sua mano sinistra sulla mia spalla quasi a trasmettermi anche con il corpo quello che mi stava dicendo e che avrebbe cambiato il resto dei miei giorni:

“Il dolore Nerone, non viene mai per fare male, chiede solo di essere trasformato, così come una fenice che risorge, anche il piombo della morte può essere trasformato in oro!”.

Respinse le sue lacrime poiché non era quello il loro tempo, ma il mio.

Mi diede 3 o 4 lievi pacche sulla spalla e fece per alzarsi, cambiando espressione e ritrovando il suo amorevole sorriso:

“Ehi, guarda che nei prossimi giorni vengo a prendere caffè e ammazzacaffè e ci facciamo un bel giro di carte intesi?”

Respirai ancora qualche minuto di quelle parole quasi a volerle impregnare dentro di me e mi accorsi che già iniziavo a non maledire più il caldo.

Rientrai a casa lentamente, zoppicando sopra al ginocchio destro; mentre attraversavo il giardino verso la veranda dissi ad alta voce:

“E va bene Adele… a noi due!”

Piano piano imparai a considerare il lutto come un evento della vita da accogliere, come una trasformazione non come un abbandono, iniziai a guardare il dolore della morte come un testimone esterno, come si guarda l’acqua che scende da una cascata, ma tu sei saldo al corrimano che ti protegge dal venirne inghiottito.

Giorno dopo giorno imparai a guardare ogni piccolo particolare di bellezza e infinita armonia, di abbondanza di cui il mio giardino era ricco e a non volgere più lo sguardo alla mancanza.

Finché, un mattino, mi sentii letteralmente rinascere dentro e amai di nuovo ogni minuto della mia vita restante.

Era di nuovo primavera e il sole quel pomeriggio era tenero e avvolgente, scesi gli scalini che portavano al giardino e mi inginocchiai nelle aiuole in bocciolo senza alcun dolore, sorridevo mentre rimestavo la terra delicatamente sotto alle piantine, quando sentii un’auto fermarsi nel vialetto.

Il cancelletto di legno si spalancò e il più piccolo dei miei nipoti mi corse incontro abbracciandomi mentre l’altro camminava lentamente e mia figlia, ancora indietro, scaricava pacchi dall’auto:

“Che succede figliolo?” chiesi prendendo il più grande sotto la mia spalla.

“Nonno” chiese con serietà:

“Ma che cos’è l’amore?”

Lo guardai sorridendo:

“Figliolo, l’amore è lasciarsi liberi di crescere e conquistare la vita a vicenda… anche se questo, a volte, richiede di farsi da parte”.

Elisabetta Camporese

Informazioni e contatti:

Dott.ssa Elisabetta Camporese

Medico Chirurgo

Specialista in Psico Neuro Endocrino Immunologia (PNEI), Medicina Sistemica e Cannabis terapia.

Dott.ssa Chiara Ziveri

Psico Cannabis Coach, Counselor, specializzata in tecniche connessione Mente-Corpo.

Si riceve online e nelle città di: Milano, Padova, Olbia

Contatti: cmc.studio2021@gmail.com

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